March 7th – June 30th, 2024
Curators:
Claudio Scorretti
Irina Ungureanu
Basata su una ricerca realizzata all’interno di undici tra i più grandi campi rifugiati esistenti oggi, la mostra Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo presenta le testimonianze – opere e storie – di 162 artisti che risiedono in questi insediamenti o che hanno vissuto una simile esperienza in passato. Insieme alle 174 opere da loro realizzate sul formato 10 x 12 cm, vengono proposti interventi di fotografia, video, installazioni e documentazione video-fotografica per offrire una riflessione più ampia sull’attuale crisi globale dei rifugiati.
Da Kutupalong, situato in Bangladesh, passando per i due più grandi campi del Kenya – Dadaab e Kakuma – e per altri due rappresentativi insediamenti in Uganda – Nakivale e Bidibidi –, la mostra giunge in Medio Oriente, a Za’atari, il più esteso campo per siriani, e in altri cinque campi per palestinesi: Baq’a, Hittin, Irbid, Madaba e Souf, tutti in Giordania. A questa cartografia si aggiungono artisti che hanno vissuto, dagli anni ’80 ad oggi, situazioni analoghe in altre aree geografiche, inclusi artisti curdi e yazidi che raccontano la complicata storia del loro popolo; infine, la sezione dedicata all’Afghanistan presenta opere e storie di 40 artisti, che, all’indomani della ripresa di potere da parte dei talebani nell’agosto 2021, hanno lasciato il Paese oppure sono rimasti in patria.
“Esuli, migranti, rifugiati e apolidi, sradicati dalle proprie terre, sono costretti a fare i conti con un nuovo paesaggio – affermava Edward Said, critico e scrittore, in Nel segno dell’esilio – e la creatività, come del resto la profonda infelicità che si attribuisce al modo di fare di tali soggetti fuori posto, costituisce di per sé una delle esperienze che devono ancora trovare una loro narrazione”. Prendendo a prestito la definizione dei rifugiati proposta da Said – out of place – l’obiettivo della mostra è quello di offrire loro uno spazio di espressione, artistica e narrativa, e presentarli in primo luogo come artisti, considerando l’attuale o passato status di rifugiati come temporaneo e accidentale nella loro biografia.
Alla luce delle storie e testimonianze raccolte, i campi ci appaiono non solo come realtà abitative fragili e temporanee, ma come entità in evoluzione, città accidentali, conglomerati urbani destinati a durare nel tempo. Un solo esempio come prova di un approccio che, invece di isolare, tende a integrare i campi nei paesi di accoglienza: nel 2023 il Kenya ha annunciato che i due insediamenti più grandi del Paese – Dadaab e Kakuma – si sarebbero integrati con le comunità locali.
Riuscire a raggiungere i campi è stato in sé un percorso iniziatico e una rottura di barriere: geografiche, linguistiche e amministrative. Realizzato con l’aiuto di artisti contattati direttamente all’interno dei campi e con il supporto di collaboratori esterni, il progetto è una testimonianza della funzionalità e della comunicazione aperta e dinamica che caratterizza i campi rifugiati presentati in mostra. Nonostante le vicissitudini, che l’arte sia ancora possibile all’interno di queste strutture e che gli artisti continuino a fare gli artisti rimane una scoperta straordinaria. Pittori, scultori, fotografi, registi nati e formatisi nel campo, raggruppati in piccole comunità, grazie al sostegno di organizzazioni umanitarie, con le loro storie insegnano lezioni potenti di determinazione e fiducia nella forza dell’arte.
Raccontare la creatività che nasce nelle “città delle spine” – per riprendere il titolo del libro di Ben Rawlence sulla vita nel complesso di Dadaab - rimane lo scopo della mostra. Trovare, cioè, l’energia creativa in grado di trasfigurare l’insostenibile realtà, per poter trasmettere un messaggio come quello di Aminah Rwimo, regista multipremiata proveniente dal campo di Kakuma: “Volevo dare l’esempio e dire ai miei compagni sopravvissuti che qualunque cosa ci sia accaduta, fa parte sì della nostra vita. Ma non ne costituisce la fine”.
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